Rigatoni con la pajata
La pagliata, in gergo romanesco pajata, è l’intestino del vitello che contiene il chimo, una sostanza lattiginosa.
I rigatoni con la pajata hanno origine nella cucina tradizionale romana ed in particolare nascono nello storico quartiere di Testaccio, dove aveva sede il mattatoio. Qui i lavoranti che ricevevano in paga anche gli scarti della macellazione (tra cui anche le interiora) hanno dato origine a questo piatto molto saporito come tutte le ricette di origine popolare.
Vieni a trovarci e ti faremo assaggiare questo famosissimo piatto.
Il marchese e la pajata
Ma che cos’è la pajata, e perché è diventata uno dei simboli della cucina romanesca? Per “pajata” si intende innanzitutto la prima parte dell’intestino tenue del vitello da latte, pulito ed eviscerato ma non privato del latte (chimo), bevuto dal piccolo bovino, ora finalmente riabilitato. Inconfondibile, grazie al suo gusto forte, antico, popolare. È l’ingrediente di uno dei piatti più famosi della cucina romana: quei rigatoni con la pajata che Alberto Sordi, nella famosa scena dell’osteria nel Marchese del Grillo, definirà così all’affascinante ospite francese di inizio ‘800: “Questa è merda! È proprio merda. Merda de vitella: so’ budella”. Ma la raffinata ospite, prima di saperlo, li stava mangiando con gusto.
I rigatoni
Dunque, ecco la ricetta dei rigatoni con la pajata: si taglia l’intestino a pezzi formando ciambelle o piccole salsicce e si fanno cuocere in padella in olio extravergine d’oliva, sale, cipolla, carota, sedano, aglio e peperoncino. Il tutto si fa rosolare a fuoco basso per circa 10 minuti, sfumando con del vino bianco. Si aggiunge quindi la passata di pomodoro e si lascia cuocere per un paio d’ore, sempre a fuoco lento, mescolando di tanto in tanto e aggiungendo dell’acqua calda se necessario , fino ad ottenere un sugo densissimo. A questo punto si fanno cuocere i rigatoni, che andranno ripassati in padella con l’aggiunta del pecorino romano.
Come secondo
I famosi rigatoni, però, non sono l’unico modo per preparare la pajata: si può preparare in umido, senza l’ausilio dei rigatoni; arrosto, cosparsa di strutto, cotta alla brace e condita con sale e pepe (modalità tradizionalmente molto diffusa fuori città); e al forno, con patate aromatizzate al rosmarino.
Il quinto quarto
La storia della pajata è legata a doppio filo con quella del “quinto quarto”, ossia i tagli meno pregiati e le interiora del bovino, più a buon mercato per le povere tasche dei popolani della capitale, in una città come la Roma papalina in cui, tradizionalmente, il consumo di carne fino al Settecento era comunque molto più alto rispetto alle altre città d’Italia e ad alcune capitali europee. Allora, secondo una testimonianza riportata dalla storica Marina Formica, a Roma si mangiava “il doppio più carne e vino che consuma Napoli benché quella città sia il doppio più grande”. La propensione della cucina romana al “quinto quarto” si deve, secondo alcuni storici, all’influenza della cucina ebraico-romana. Le fortune delle interiora iniziarono però a declinare proprio alla fine del ‘700, quando cominciarono ad essere usate solo dalle classi più povere che vivevano vicino ai mattatoi, che nel frattempo le autorità tendevano ad allontanare dal centro per motivi igienici. Per questo la tradizione della pajata, nell’Ottocento, si concentrerà prevalentemente al Testaccio. L’edificio che oggi si può ammirare risale al 1888, ma già negli anni precedenti lì si erano concentrati “vaccinari” o “scortichini”, ossia coloro che avevano il compito di scuoiare i bovini. Questi operai venivano pagati in natura e non in moneta. E proprio col “quinto quarto”, magro compenso per il loro duro lavoro. Il consumo di piatti della cucina di recupero andrà però via via diminuendo, fino ai pochi “templi” vivi ancora oggi, che però hanno la loro legione agguerritissima di adepti. Dopo lo shock della messa fuori legge all’inizio degli anni 2000, la tradizionale pajata è stata a lungo sostituita da quella preparata con interiora d’agnello. Oggi, attende solo di essere riscoperta per riavere, anche lei, la gloria che merita.